L'ottica è quel ramo della fisica, in particolare dell'elettromagnetismo, che studia i fenomeni riguardanti la luce, identificabile con le radiazioni luminose, la sua propagazione (nel vuoto e nei mezzi materiali) e la sua interazione con la materia.
Viene suddivisa in:
- ottica geometrica; studia i fenomeni ottici dal punto di vista geometrico, assumendo che la luce si propaghi lungo raggi rettilinei;
- ottica fisica; studia quei fenomeni non spiegabili dall'ottica geometrica e attribuibili alla natura ondulatoria della luce;
- ottica quantistica; indaga i fenomeni ottici basandosi sul concetto di fotone, particella dotata contemporaneamente di proprietà corpuscolare e ondulatoria.
La luce
La luce è tutto ciò che produce sensazioni visive sulla retina dell'occhio umano, qualunque sia la fonte di tali sensazioni.
Si tratta di un fenomeno di natura ondulatoria dovuto alla propagazione, in tutte le direzioni dello spazio, di onde trasversali elettromagnetiche, in particolare quelle di frequenza compresa tra 3,75 ∙1014 Hz e 7,5 ∙1014 Hz e λ tra 8 ∙10-7 m e 4 ∙10-7 m, percepibili dall'occhio umano come colore rosso per le frequenze più basse e violetto per quelle più alte, emesse in quantità discrete chiamate fotoni o quanti di luce e caratterizzate, come tutti i fenomeni periodici da: ampiezza, lunghezza d'onda, frequenza, velocità di propagazione.
Come, infatti, una particella vibrante genera onde meccaniche, così le oscillazioni degli elettroni tra posizioni più o meno distanti dal nucleo generano le onde elettromagnetiche, le quali, a differenza delle prime, si propagano anche nel vuoto.
Vediamo come si arriva a questa complessa definizione.
Excursus storico
Filosofi greci
Sulla natura della luce si è indagato fin dall'antichità.
Secondo il filosofo greco Pitagora (c. 580 - 496 a.C.) gli occhi emettono un fluido speciale che, come un tentacolo, percepisce gli oggetti, riportandone le sensazioni.
Un'ipotesi assurda, visto che al buio non vediamo, ma che si è mantenuta per molti secoli.
Gli atomisti, come Democrito (c. 460 a.C. - 370 a.C.), invece, ritenevano che gli oggetti emettessero dei simulacri o scorze che, introducendosi negli occhi, ne riportavano forme e colori. Nel libro IV del De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98 a.C. ? - 55 a.C. ?) leggiamo: «tutte le cose emettono le loro delicate effigi perché queste specie di immagini hanno la loro sorgente sulla superficie dei corpi. Abbiamo quindi rivelato l'esistenza di simulacri, che percorrono la spazio aereo con forma così delicate che se ce ne allontaniamo sfuggono ai nostri occhi».
Empedocle (V sec. a.C.) e poi Platone (428/427 a.C. - 348/347 a.C.), facendo una sintesi delle due scuole precedenti, pensavano che dagli gli oggetti partisse un fluido particolare che si incontrava con quello proveniente dalle pupille. Se i due fluidi sono simili, incontrandosi si uniscono strettamente e l'occhio riceve la sensazione visiva; se la luce degli occhi incontra invece un fluido dissimile, si estingue e non restituisce alcuna sensazione all'occhio.
Galeno (c. 129 d.C. - 201 d.C.) seguì le idee platoniche, ma diede maggiore importanza al fluido esterno diffuso dal Sole e precisò che la luce degli occhi, secreta dal cervello, arrivava alla pupilla attraverso il nervo ottico.
Teoria ondulatoria
Bisogna arrivare al Rinascimento per avere delle teorie basate su dati sperimentali.
Lo studioso inglese Robert Hooke (1635 - 1703), che in realtà nulla aveva aggiunto alle esperienze fatte dal padre gesuita Francesco Maria Grimaldi (1618 - 1663), propose nel 1667 una teoria ondulatoria, sviluppata dal fisico olandese Christiaan Huygens (1629 - 1695) nel Traité de la lumière (1690).
Secondo questi studiosi, la luce consiste in un movimento ondulatorio generato dal corpo luminoso che si propaga a velocità elevatissima in una sostanza elastica e sottilissima, quindi senza peso, chiamata etere luminifero, che riempie lo spazio e compenetra i corpi allo stesso modo in cui le onde sonore si propagano nell'aria.
Huygens pensava che le vibrazioni dell'etere fossero onde meccaniche longitudinali, come quelle del suono, mentre Grimaldi e Hooke avevano già postulato che fossero vibrazioni trasversali.
Teoria corpuscolare
Isaac Newton (1642 - 1726), invece, nel trattato Opticks (1704) sosteneva la teoria corpuscolare, perfezionamento dell'antica teoria dell'emissione di Democrito. Questa spiegava i fenomeni luminosi assumendo che la luce si propagasse in linea retta. Secondo questa teoria, un corpo luminoso diffonde corpuscoli velocissimi, minuscole particelle di luce, aventi massa differente secondo il colore, che sono percepite dall'occhio.
Delle due prevalse all'inizio la teoria corpuscolare, grazie anche all'influenza di Newton, ma nel 1801 il fisico inglese Thomas Young (1773 - 1829) riuscì a osservare fenomeni di interferenza luminosa che confermavano sperimentalmente l'ipotesi di Grimaldi, dimostrando definitivamente la natura ondulatoria della luce, pur rimanendo irrisolto il problema dell'etere. L'interferenza (animazione sotto) e la diffrazione, infatti, sono fenomeni che si giustificano se la propagazione avviene attraverso onde, mentre non trovano alcuna spiegazione se la propagazione avviene attraverso lo spostamento di corpuscoli.
Questa teoria è stata verificata sperimentalmente nel 1819 anche dal fisico francese Augustin-Jean Fresnel (1788 - 1827), dimostrando l'interferenza distruttiva delle radiazioni luminose.
Teoria elettromagnetica
Il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831 - 1879) nel 1865 identificò la luce come onde elettromagnetiche di piccolissima lunghezza d'onda, dotate di frequenza elevatissima, diversa secondo i colori che l'occhio percepisce, caratterizzate da vibrazioni trasversali generate da oscillazioni di campi magnetici ed elettrici tra loro perpendicolari e ortogonali alla direzione di propagazione.
Teoria quantistica
Il problema della luce sembrava risolto e invece nel 1887 il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz (1857 - 1894) scoprì l'effetto fotoelettrico. Questo fenomeno consiste nell'emissione di elettroni da parte di un metallo colpito dalla luce. Come dimostrerà Einstein, l'emissione dipende dalla frequenza dell'onda elettromagnetica incidente - che non deve essere sotto una determinata soglia - e non dall'intensità della radiazione.
Il fenomeno non si può spiegare se si considera l'energia luminosa uniformante distribuita su tutto il fronte d'onda, mentre si spiega se si attribuisce alla luce un carattere granulare, discontinuo.
Si ritorna alla vecchia teoria corpuscolare di Newton? Evidentemente ci sono altri passi da compiere.
Nel 1900 il fisico tedesco Max Planck (1865 - 1947) dimostrò che le onde elettromagnetiche non sono emesse in modo continuo, ma in quantità discrete di energia chiamate quanti.
Nel 1905 il fisico tedesco Albert Einstein (1879 - 1955), spiegando l'effetto fotoelettrico scoperto da Hertz, dimostrò che la luce è costituita da grani di energia, chiamati fotoni (o quanti di energia), di massa nulla, che si propagano nel vuoto alla velocità della luce, estendendo così l'ipotesi dei quanti di Planck.
La teoria quantistica concilia l'interpretazione dei fenomeni a carattere tipicamente ondulatorio con quelli a carattere corpuscolare, attribuendo alle radiazioni luminose un duplice comportamento, con prevalenza dell'ondulatorio o del corpuscolare, secondo i fenomeni.
Mentre quindi per la teoria ondulatoria ogni luce omogenea ha una lunghezza d'onda determinata, secondo la teoria quantistica ogni luce omogenea, e quindi ogni onda elettromagnetica, consiste in fotoni di energia determinata, proporzionale alla sua frequenza e la costante di proporzionalità si chiama costante di Planck.
Se ν è la frequenza delle onde elettromagnetiche, ogni fotone è dotato di una quantità di energia E = hν, essendo h la costante di Planck e si comporta come un corpuscolo tanto che è possibile attribuirgli una quantità di moto hν/c, dove c la velocità di propagazione della luce nel vuoto.
Il problema dell'etere
Abbiamo visto che la teoria ondulatoria prevedeva un mezzo elastico per la propagazione delle onde luminose: l'etere luminifero, che permea tutto l'Universo.
La Terra, percorrendo l'orbita attorno al Sole, si muoverebbe immersa in questo mezzo, ipotizzato immobile* pertanto, per un osservatore terrestre, l'etere si muoverebbe in direzione opposta (vento dell'etere). Per essere più chiari, immaginiamo di essere fermi in un'afosa giornata estiva, con l'aria stagnante. Se cominciamo a correre, sentiamo l'aria venirci incontro, anche se in realtà non si sta muovendo. Allo stesso modo succede per la Terra con il vento dell'etere.
Un osservatore non percepisce l'etere, ma la luce sì, essendo il suo mezzo di propagazione perciò, se misuriamo la velocità della luce, dovremmo ottenere un valore minore nella direzione del moto orbitale terrestre perché sarebbe investito dal vento dell'etere che oppone resistenza avendo verso contrario e superiore nella direzione opposta.
* Questa è l'ipotesi di etere stazionario ma è stata proposta anche quelli dell'etere trascinato insieme al moto terrestre. Questa seconda ipotesi viene smentita dall'esperienza di Bradley, che vedremo più avanti.
Il fisico americano Albert Abraham Michelson (1852 - 1931) volle verificare nel 1881 la presenza effettiva dell'etere, perciò costruì uno strumento, detto interferometro (di Michelson), per misurare la velocità della luce nelle diverse direzioni dello spazio, schematizzato nella seguente figura.
Una sorgente monocromatica (1) emette un fascio di luce (giallo) verso uno specchio semitrasparente (2), che divide il fascio in due.
Il primo (verde) è riflesso verso lo specchio (3), posto a una distanza d. Da qui viene a sua volta riflesso e, attraversando lo specchio semiriflettente, arriva al rilevatore (5).
Il secondo (rosa), dopo aver attraversato lo specchio semiriflettente, arriva allo specchio (4), perpendicolare rispetto allo specchio (3) e sempre alla distanza d. Da qui è riflesso verso lo specchio semiriflettente che, a sua volta, lo invia al rilevatore (5).
Arrivati al rivelatore i due fasci si ricongiungono.
Poiché le distanze tra gli specchi normali e quello semitrasparente sono uguali, la luce riflessa da entrambi arriva contemporaneamente a quest'ultimo e ancora contemporaneamente al rilevatore. Poiché derivano da un'unica sorgente luminosa, i due raggi hanno la stessa intensità, lunghezza d'onda e ampiezza, sono cioè coerenti tra loro, per cui arrivano al rilevatore in fase, raddoppiando la luminosità totale.
Michelson voleva però ottenere una figura di interferenza e non un fascio luminoso, perciò modificò leggermente gli angoli degli specchi in modo che i cammini ottici fossero leggermente diversi.
Orientando l'interferometro in direzione del moto orbitale terrestre e poi in altre direzioni, le frange di interferenza avrebbero dovuto scorrere, rilevando una diversa velocità della luce nelle varie direzioni.
Supponendo per esempio che il moto orbitale avvenga in direzione 1-4, che v sia la velocità del moto orbitale rispetto all'etere e c quella della luce rispetto all'etere, avremmo per il raggio 2-4 un valore di (c - v) all'andata - accettando la legge di composizione galileiana della velocità - e (c + v) al ritorno, mentre il raggio 2-3 avrebbe un valore diverso (√(c2 - v2)), essendo perpendicolare al primo e quindi si ottengono frange di interferenza. Ruotando l'interferometro di 90°, questa volta il moto orbitale terrestre avviene in direzione 2-3 e quindi le frange risultano spostate.
* Poiché lo strumento, muovendosi attraverso l'etere, trasporta con sé anche lo specchio, il percorso della luce non è esattamente rettilineo, ma è formato dai due cateti di un triangolo.
Dopo diverse misurazioni, Michelson constatò che non si notava alcuno scorrimento delle frange d'interferenza.
Poiché lo strumento non era così preciso da escludere con certezza l'esistenza del movimento nell'etere, nel 1887, insieme al fisico statunitense Edward Williams Morley (1838 - 1923) costruì un nuovo interferometro molto più grande, posto in una vasca piena di mercurio per ridurre le vibrazioni. Ripeterono più volte l'esperimento in tempi diversi e ancora una volta non si vide lo scorrimento delle frange d'interferenza. Gli scienziati, senza sbilanciarsi troppo, affermarono che l'etere non era necessario per la propagazione delle onde luminose.
In realtà, le frange rimangono fisse perché la velocità della luce è costante in tutte le direzioni e per tutti gli osservatori.
Bisogna arriva al 1905 con la Teoria della relatività ristretta per fornire una spiegazione. In conclusione, se non si rileva la presenza dell'etere, vuol dire che l'etere non esiste.
Sorgenti luminose
Possiamo vedere un oggetto quando una sorgente lo illumina e la luce da questo viene inviata all'occhio.
Una sorgente luminosa è un corpo in grado di emettere luce propria, cioè radiazioni la cui frequenza sia dell'ordine di 1014 Hz.
Le stelle, come il Sole, una lampadina, la stella Kepler-42 della figura sotto, un fuoco acceso sono sorgenti luminose.
In generale, qualsiasi corpo portato a una temperatura elevata è una sorgente luminosa perché gli atomi sono portati a un particolare stato di eccitazione. Questo non è sempre valido perché i led, per esempio, emettono luce a una temperatura relativamente bassa e come le lampade contenenti gas rarefatti (es. neon), i cui atomi sono eccitati da scariche elettriche.
I pianeti (Giove della figura sotto) e i satelliti come la Luna (e ogni oggetto che ci circonda) sono corpi illuminati perché diffondono la luce proveniente da una sorgente luminosa.
Un corpo illuminato riflette una parte della luce ricevuta, una parte la assorbe e la restante la trasmette.
Permeabilità alla luce
Quando le radiazioni luminose incontrano nel loro percorso un corpo materiale che le intercetta, possono attraversarlo o essere bloccate.
I corpi trasparenti si lasciano attraversare da gran parte della luce ricevuta, come l'aria, il vetro, l'acqua, ecc.
I corpi opachi non si lasciano attraversare dalla luce, come i metalli, il legno, la pietra, il cartone, ecc.
I corpi traslucidi si lasciano attraversare parzialmente dalla luce in modo diffuso, fornendo una visione non nitida degli oggetti retrostanti, come il vetro smerigliato, la carta oleata, ecc.
La distinzione non dipende solo dal materiale, ma anche dallo spessore. Un velo d'acqua è trasparente, ma nelle profondità marine regna il buio per l'elevato spessore dell'acqua. Così, una sezione molto sottile di un corpo opaco, anche una roccia, può essere trasparente, o almeno traslucida.
Propagazione della luce
I raggi luminosi, intesi come fasci di luce infinitamente sottili, normalmente invisibili all'occhio umano, diventano visibili quando incontrano nell'aria delle particelle di pulviscolo, mostrando il loro percorso rettilineo.
Se la luce emessa da una sorgente puntiforme incontra una lamina opaca con un foro circolare molto piccolo, la radiazione luminosa viene bloccata e si trasmette solo attraverso il foro, formando un fascio di luce che avanza in linea retta fino a incontrare uno schermo, dove forma un dischetto nitido.
Sempre usando una sorgente puntiforme, sostituiamo la lamina con un corpo opaco. In questo caso, invece di un fascetto di luce si forma un fascetto d'ombra che si proietta sullo schermo come un cerchietto nero, ombra del corpo opaco, avente dimensione maggiore del corpo. L'ombra diventa più grande quando la sorgente si avvicina al corpo opaco (e viceversa).
Ripetiamo l'esperienza con una sorgente estesa.
Nel primo caso si forma un cerchio non delimitato nettamente, con una parte più luminosa al centro.
Nel secondo caso abbiamo un'ombra dai contorni sfumati, circondata da una zona meno oscura di penombra.
È quanto si verifica nelle eclissi di Sole e di Luna.
Le due esperienze dimostrano che nel vuoto e nei mezzi materiali omogenei e isotropi, la luce si propaga in linea retta.
Velocità della luce
La luce ha una velocità così elevata che è stato difficile arrivare a una misurazione precisa.
Prima dell'introduzione del metodo sperimentale si pensava che la luce viaggiasse a velocità infinita (Erone di Alessandria, tra I e III sec. d.C. ?).
Un primo tentativo di misurazione per accertare se veramente la propagazione della luce fosse veramente istantanea lo ha fatto Galileo Galilei (1564 - 1642), insieme a Filippo Salviati (1853 - 1614), calcolando il tempo di invio e ricezione di un segnale inviato con la lanterna, conoscendo la distanza. Ciascuno sperimentatore era munito di una lanterna coperta e posto su un'altura a una distanza di 2 - 3 km. Quando il primo scopriva la lanterna, il secondo doveva scoprire la sua non appena vedeva la luce dell'altro. In base al tempo della visione della luce e alla distanza poteva calcolare la velocità della luce, almeno così credeva.
Ovviamente l'esperimento non poteva riuscire, data l'alta velocità della luce e i tempi di reazione degli sperimentatori, ma Galileo ha avuto il merito di avere usato il metodo sperimentale per il calcolo della velocità.
Nel 1676 l'astronomo danese Ole Christensen Rømer (1644 - 1710) utilizzò un metodo astronomico per calcolare la velocità della luce.
Egli aveva notato che le eclissi di Io, uno dei satelliti di Giove, non avevano un periodo regolare. Quando la Terra, nella sua orbita attorno al Sole era più vicina a Giove, il periodo in cui si ripetevano le eclissi era inferiore rispetto a quando la Terra era più lontana, cioè dalla parte opposta (nella figura, per motivi grafici, non sono stati scelti due punti opposti). Ne dedusse che tale discrepanza, che era di circa 22 minuti, dipendeva dal fatto che la luce doveva percorrere un tratto maggiore quando la Terra era lontana, cioè quello del diametro dell'orbita terrestre.
Basandosi su queste considerazioni ottenne una velocità di 212.121 km/s. Il risultato sarebbe stato molto più preciso se all'epoca avesse conosciuto con precisione il diametro dell'orbita terrestre.
Un altro tentativo di tipo astronomico è stato fatto nel 1728, dall'astronomo inglese James Bradley (1693 - 1762), impiegando l'aberrazione stellare, che è l'angolo tra la reale direzione di propagazione della luce di una stella e l'apparente posizione osservata.
L'astronomo aveva notato che la stella γ Draconis, osservata in diversi periodi dell'anno, appariva in una posizione leggermente spostata rispetto a quella reale.
Se una stella è allo zenit e l'osservatore è fermo, puntando il telescopio nella sua direzione, la luce lo attraversa lungo l'asse e giunge all'occhio.
La Terra, e quindi anche l'osservatore, però, si muovono lungo un'orbita ellittica. Posizionando il telescopio perpendicolarmente al piano di rotazione terrestre, per vedere la stella occorre inclinare leggermente il telescopio in direzione del moto terrestre.
Conoscendo quindi l'angolo di aberrazione della stella e la velocità di rivoluzione, Bradley ha calcolato la luce viaggia a una velocità di 301.000 km/s.
Il fisico francese Armand Hippolyte Louis Fizeau (1819 - 1896) nel 1849 utilizzò un dispositivo basato su una sorgente luminosa, uno specchio e una ruota dentata, come nella figura sotto.
Un raggio di luce incidente, emesso dalla sorgente (1), attraversa lo specchio semiargentato (2) - che lascia passare il raggio incidente ma non quello riflesso -, attraversa lo spazio vuoto tra un dente e l'altro della ruota (3) e raggiunge lo specchio remoto (4), posto a 8,633 km di distanza. Il raggio riflesso riattraversa la ruota dentata e, giunto allo specchio (2), è inviato al rilevatore (5) che lo raccoglie e quindi è visibile all'osservatore.
Se la ruota è ferma, i raggi incidente e riflesso attraversano il medesimo spazio tra i denti della ruota e l'osservatore lo può rilevare.
Quando la ruota è in movimento, il raggio riflesso può incontrare il dente successivo allo spazio vuoto, perciò viene bloccato e l'osservatore non vedrà la luce. Se invece il raggio riflesso passa lo spazio vuoto successivo a quello del raggio incidente, l'osservatore vedrà la luce.
Per vedere il raggio di luce, la ruota doveva ruotare a un'elevata frequenza (circa 12,5 giri/s); conoscendo la frequenza, il numero di denti della ruota e il tempo che impiegava il raggio per compiere 17 km (andata e ritorno), cioè il tempo di passaggio tra due spazi interdentali, poteva calcolare la velocità della luce. Egli ottenne un valore di 313.300 km/s.
Il fisico francese Jean Bernard Léon Foucault (1819 - 1868) nel 1862 perfezionò il metodo di Fizeau sostituendo alla ruota dentata uno specchio rotante, schematizzato nella figura sotto.
Una sorgente (1) emette un fascio luminoso verso uno specchio semiargentato (2), dal quale viene riflesso a uno specchio rotante (3) in posizione iniziale AB, con asse di rotazione perpendicolare al raggio. Dallo specchio rotante il raggio è riflesso verso uno specchio concavo fisso*(4), posto alla distanza d.
Se lo specchio rotante è fisso in AB, dallo specchio curvo la luce ripercorre il cammino in senso inverso e, passando attraverso lo specchio semiargentato, giunge al rilevatore (5) nella posizione P, dietro alla quale si trova l'osservatore. Se non ci fosse stato lo specchio semiargentato, la luce sarebbe andata direttamente dalla sorgente allo specchio rotante e tornata indietro verso di essa.
Ora facciamo ruotare lo specchio con velocità gradualmente crescente. All'inizio osserviamo una luce intermittente in P perché passa solo quando lo specchio rotante si trova nella posizione AB. A un certo punto la frequenza dei lampi luminosi sarà così elevata da non poter essere distinti per il fenomeno della persistenza dell'immagine sulla retina. Aumentando ancora la velocità di rotazione, succede che, nell'intervallo di tempo t impiegato dalla luce a compiere il percorso di andata e ritorno 2d, lo specchio è ruotato di un angolo α: la luce allora è riflessa in P' e forma con la precedente direzione un angolo 2α. Dalla misura di questo angolo e dalla conoscenza della velocità di rotazione si risale al valore di t e quindi a quello di c, da cui Foucault ha ottenuto il valore di 298.000 km/s.
Foucault fece anche un altro esperimento. Inserì un tubo riempito di acqua tra lo specchio rotante e quello convesso, riuscendo a misurare la velocità della luce nell'acqua, che risultò inferiore a quella dell'aria, smentendo così la teoria corpuscolare che prevedeva il contrario.
* Lo specchio fisso deve essere uno specchio curvo, con un raggio di curvatura approssimativamente pari alla distanza tra i due specchi. Con uno specchio curvo non importa dove punta lo specchio rotante: se il raggio riesce a colpire
un punto qualsiasi
dello specchio sferico fisso, viene sempre riflesso nello
stesso punto esatto
sullo specchio rotante.
Il fisico americano Albert Abraham Michelson, già incontrato a proposito del problema dell'etere, perfezionò ulteriormente il metodo di Foucault usando uno specchio rotante poligonale a 8, 12, 16, … facce, ripetendo le esperienze dal 1879 al 1926. L'esperienza del 1931 non fu completata a causa della sua morte.
Vediamo in modo schematico come funziona l'esperienza seguendo la figura.
Dalla sorgente (1) parte un raggio luminoso che arriva a una faccia dello specchio rotante (2), costruito in questo caso con 8 facce.
La faccia riflette il raggio verso uno specchio curvo (3), posto a una distanza di circa 35,385 km (dall'Osservatorio del Monte Wilson e il San Antonio Peak nel sud della California).
Da qui è inviato a uno specchio piano (4) che, a sua volta lo invia nuovamente allo specchio concavo (3).
Lo specchio curvo riflette il raggio su un'altra faccia dello specchio rotante (2) e infine al rilevatore (5).
Se lo specchio è fermo, la luce percorre il tratto indicato in figura fino ad arrivare al rilevatore, dove viene percepita dall'osservatore.
Quando lo specchio è in rotazione a bassa velocità, l'angolo non ha la corretta incidenza per arrivare fino al rilevatore e quindi la luce non viene percepita.
Si aumenta allora progressivamente la velocità di rotazione fino ad avere nuovamente il raggio luminoso nel rilevatore. Questo si verifica quando, nel percorrere i 71 km di andata e ritorno, il prisma ha compiuto ⅛ di giro, cioè quando il raggio giunge alla faccia adiacente a quella del raggio incidente.
Conoscendo la distanza tra gli specchi e il numero di giri al secondo dello specchio, si può calcolare la velocità della luce.
Nell'ultima rilevazione effettuata nel 1926, che Michelson riteneva definitiva, ha ottenuto un valore di c = 299.796 ± 4 km/s, superiore di solo circa 4 km/s al valore attualmente accettato.
Con l'interferometro costruito insieme a Morley aveva anche scoperto che la luce ha una velocità costante in tutte le direzioni, indipendentemente dalla velocità dell'osservatore, e fu il primo a misurare la velocità della luce nel vuoto, che è uguale a quella delle onde elettromagnetiche, ed è anche la massima possibile. È un postulato della relatività ristretta, verificato sperimentalmente da Einstein.
Il fisico inglese James Clerk Maxwell (vedi sopra sulla teoria elettromagnetica) nel 1861 aveva trovato le equazioni che descrivono le proprietà del campo elettrico e magnetico. A partire da queste equazioni dimostrò che era possibile ricavare l'equazione applicabile a qualsiasi fenomeno oscillante, compresa la luce.
Le equazioni - che portano il suo nome - implicavano l'esistenza delle onde elettromagnetiche e che queste dovessero propagarsi a una velocità pressoché uguale a quella della luce. Si trattava però di formulazioni teoriche, perché all'epoca le onde elettromagnetiche non erano ancora state osservate.
Nel 1865, grazie anche alle sperimentazioni di Hertz, Maxwell identificò la luce come onde elettromagnetiche che si propagano nel vuoto, avendo constatato, come si diceva sopra, che la loro velocità coincideva con quella misurata sperimentalmente per la luce.
Aveva inoltre osservato che questa velocità non sembrava essere influenzata dallo stato di moto della sorgente, come se fosse una costante associata alle equazioni.
Con le sue equazioni è possibile calcolare esattamente la velocità della luce, considerando solo le due costanti fondamentali del campo elettrico e magnetico.
Il fatto dell'invarianza della velocità della luce rispetto al moto della sorgente, dimostrato solo nel 1913 dall'astronomo olandese Willem De Sitter (1872 - 1934) lo confermerà Albert Einstein con la Teoria della Relatività Ristretta. Il secondo postulato afferma che la velocità della luce è costante in tutti i sistemi di riferimento rispetto ai quali viene misurata, indipendentemente dal moto della sorgente rispetto all'osservatore.
Nella seconda metà del secolo scorso si sono affinate le tecniche, usando laser e interferometri a microonde così che nel 1957 l'Unione Radio-Scientifica Internazionale ha adottato per la luce nel vuoto, e quindi tutte le onde elettromagnetiche, il valore:
c = 299.792.458 ± 1 m/s
Tale valore ha un margine di incertezza inferiore alla capacità di misura per cui nel 1983 il CGPM (Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure) lo ha scelto per definire il metro: «Il metro è la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo».
In un mezzo materiale la luce viaggia a una velocità inferiore perché dipende dall'elasticità e dalla densità del mezzo e dal fatto che la materia assorbe parte dell'energia trasportata dalla radiazione luminosa.
Tempo impiegato dalla luce per andare dalla Terra alla Luna. (Crediti:
Dr. James O'Donoghue
, under YouTube alias "Interplanetary" - CC BY-SA 3.0)